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"...QUELLE OSSA IN RIVA AL FIUME"


Addentrarsi nella golena del Po significa recuperare la memoria di un ambiente naturale che ormai nella Pianura Padana è soltanto un lontano ricordo.
Percorrendo le sponde interne dei meandri si raggiungono ampie distese di sabbia, conosciute come barre di meandro, sulle quali anche l’osservatore più distratto può facilmente imbattersi in qualche resto fossile. Testimonianze di animali e vegetali vissuti in epoche passate ritornano alla luce grazie all'incessante attività del fiume.
Notizie di fossili lungo le spiagge del Po si ritrovano già nella letteratura della prima metà del 1500. Vi sono addirittura scritti antecedenti con riferimenti a reperti trovati nell'alveo del fiume fin dai tempi di Ludovico Sforza.
Ancora oggi, e forse a maggior ragione, il fiume è sempre più meta di appassionati di Storia Naturale che, nella casualità di un ritrovamento paleontologico, possono assaporare i piaceri di una vera scoperta scientifica. E’ grazie al contributo di persone come Romano Amici e Paolo Panni di Zibello, ad esempio, che è stato riportato alla luce  parte di quel prezioso patrimonio paleontologico utile per ricostruire la preistoria della pianura. In oltre un decennio di ricerca, sono stati recuperati oltre 500 reperti fossili che oggi rappresentano l’intera collezione paleontologica del vicino Museo Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (CR). 
Leggende e convinzioni comuni si sono fatte strada nel corso degli anni tra la gente della bassa casualmente imbattutasi in questi reperti. La spiegazione che più comunemente si sente raccontare da queste persone, è che queste ossa altro non siano che i numerosi resti dei cavalli affogati nel fiume a seguito alla rovinosa ritirata compiuta dai tedeschi al termine della seconda guerra mondiale. Una logica correlazione che le persone anziane effettuano, avendo vissuto quella amara ed impressionante pagina di guerra, fatta di morte e di resti che ben si prestano ad interpretare il ruolo dei fossili. 
Ma cosa succede quando i resti fossili risultano palesemente in disaccordo con questa teoria post bellica? Succede che resti di bisonte, elefante, mammut, alce e cervo gigante, cioè specie estinte per le quali non si trovano analoghi nella fauna locale, vengono custoditi e nascosti in attesa che qualcosa o qualcuno, prima o poi, possa far luce sul “mistero”. 
Stephen J. Gould, paleontologo americano, durante la sua ammirevole carriera di scienziato scrisse: "Le scoperte più importanti si fanno nei cassetti dei musei". Si tratta di una realtà sacrosanta, come altrettanto vera è la realtà delle mirabili scoperte, relative ai fossili del Po, che si possono fare nelle cantine della bassa.
Da quando il Museo Paleoantropologico del Po si è rinnovato facendosi conoscere più ampiamente sul territorio, molte cantine si sono spalancate per ridare luce e lustro ad antiche scoperte paleontologiche che tempi non maturi per la consegna, portarono ad ammuffire o ad arredare rustici e polverosi ambienti di campagna.
Qualche anno fa, venne ritrovato un enorme femore di mammut rinvenuto presso Spinadesco (CR), su una barra fluviale del Po ad opera di un padre e di un figlio che collocarono la gamba del gigante nella loro soffitta per almeno 30 anni. 
La scorsa estate invece è stato il turno di un bisonte, un cranio di incredibili dimensioni,  ritrovato dallo scomparso Benito Grossi, presso Polesine Parmense (PR), e conservato appeso alla parete di una baracca in riva al Po per almeno un ventennio, fino a quando il figlio Francesco, sollecitato da Romano Amici, curatore del Museo della Civiltà contadina di Zibello, decise di donare il fossile al Museo di San Daniele Po, condividendolo con la scienza e con il pubblico. Non è però solo il volere degli uomini che permette di venire a conoscenza di simili tesori, ma anche quello del fiume, da sempre protagonista e attore essenziale. 
Il duemila, ad esempio, fu l’anno della catastrofica alluvione del fiume Po. L’evento coinvolse il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Liguria, l’Emilia Romagna e la Lombardia generando oltre 40.000 sfollati. Catastrofi di questo tipo, grazie alla loro straordinaria intensità, sono spesso accompagnate da imprevedibili quanto straordinari effetti collaterali, come ad esempio il ritrovamento eccezionale di reperti fossili. A seguito di quell’alluvione infatti, numerosi furono i ritrovamenti paleontologici che si susseguirono in provincia di Parma e di Cremona, specialmente nei periodi tardo invernale ed estivo successivi alla piena, quando la secca del Po fece emergere uno scenario fluviale tremendamente mutato rispetto gli anni precedenti. 
La golena era irriconoscibile: il passaggio dell’onda di piena generò una morfologia naturale fatta di nuovi accumuli sedimentari e segnata dall’erosione di potenti bancate di sedimenti vegetati. Dove vi erano residui di boschi naturali sulle rive alte del fiume, rimasero soltanto conche semicircolari scavate nel terreno, come i morsi di uno squalo affamato capace di divorare gli strati superficiali della pianura.
A seguito della segnalazione ad opera di una persona frequentatrice del fiume, vennero recuperati alcuni resti umani sulla barra sabbiosa tra Motta Baluffi e San Daniele Po.
Si trattava in particolare di un piccolo cranio, grande poco più di una noce di cocco che divenne il primo cranio umano conservato nel Museo di San Daniele Po. Il reperto che, per colorazione e peso poteva essere riconosciuto come antico, era quasi interamente intatto, anche nelle sue parti più fragili. Quest’indizio, unito alla mancanza di segni di trasporto fluviale, fu utile per ipotizzare la scarsa percorrenza del fossile nel fiume e la possibile vicinanza del sito di sepoltura primaria rispetto al luogo di ritrovamento.
Sulla base di tali supposizioni furono organizzate ricerche in zona, convogliando in questi luoghi gran parte delle persone che generalmente frequentano il fiume alla ricerca di altri resti. In poco meno di quattro anni, furono ritrovati altri sette crani umani, tra i quali uno proveniente proprio dalla spiaggia di Zibello ad opera di Paolo Panni, divenuti oggetto di uno studio scientifico pubblicato qualche anno più tardi. 
Questi resti, attribuiti sommariamente al periodo preistorico dell’Età del Bronzo (da 3500 a 1200 anni fa) a seguito della concomitante abbondanza di resti di manufatti in ceramica, dimostrano, uniti ai numerosi siti terramaricoli sparsi nella bassa pianura parmense e reggiana, quanto popolosa fosse la Pianura durante la preistoria. In un ambiente fortemente caratterizzato dalla presenza del Po e dei suoi affluenti, acquitrini diffusi erano la norma e villaggi, che spesso sorgevano su palafitte protette da arginature, si dislocavano in diversi punti di questo territorio che offriva abbondanza di cibo grazie alla selvaggina e alle coltivazioni dei terreni strappati alle paludi. La storia più recente, priva di quegli animali antichi e possenti, delle belve feroci e delle alternanze climatiche fredde e calde che riconosciamo negli strati argillosi e sabbiosi del Grande fiume, è quella caratterizzata dalla presenza sempre più numerosa dell’uomo, che per il proprio sostentamento ha saputo trasformare a tal punto l’ambiente che lo ospita da rendere quasi incomprensibili quegli indizi fossili che periodicamente riemergono dal fiume.

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