Sono un naturalista fluviale, nel senso che il fiume per me ha da sempre rappresentato l’idea di natura selvaggia e poi crescendo, complici gli studi naturalistici, la metafora dell’evoluzione della vita intesa secondo darwiniano pensiero.
Darwin ha adottato, come rappresentazione dell’evoluzione biologica, la figura del corallo ramificato che, sospinto da fattori ambientali, va incontro a uno sviluppo non strumentalizzabile dall’uomo, esattamente come il corso di un fiume che, mosso unicamente dalla forza di gravità, segue un percorso apparentemente illogico, determinato dalle innumerevoli sfaccettature geomorfologiche che caratterizzano la regione sulla quale scorre.
Darwin ha adottato, come rappresentazione dell’evoluzione biologica, la figura del corallo ramificato che, sospinto da fattori ambientali, va incontro a uno sviluppo non strumentalizzabile dall’uomo, esattamente come il corso di un fiume che, mosso unicamente dalla forza di gravità, segue un percorso apparentemente illogico, determinato dalle innumerevoli sfaccettature geomorfologiche che caratterizzano la regione sulla quale scorre.
Certo,
si potrebbe obiettare che in fondo un fiume ha un senso unidirezionale, ma
l’evoluzione in fondo, pur con infinita variabilità, non continua nel tempo con
differente velocità esattamente come un corso d’acqua? E per comprendere il
senso del processo evolutivo, non bisogna indagarlo e conoscerlo?
Questo
è il senso di tutte le mie escursioni naturalistiche sul Po: accurate
osservazioni naturalistiche finalizzate a riconoscere le dinamiche
evoluzionistiche dell’ambiente e delle specie.
Era
il mese di maggio quando, a differenza di alcuni anni precedenti, il Po
caratterizzava la primavera con una rigogliosa piena stagionale, generata da
limitate precipitazioni piovose e soprattutto, dall’arrivo nella bassa pianura
di acque di fusione dei ghiacciai alpini. Entrai, come mia consuetudine, nel
fiume a bordo del kayak, attraverso il mandracchio che collega la lanca
artificiale di Motta Baluffi (CR) al corso principale del Po. E’ ormai prassi,
nella bassa pianura cremonese, assistere ad opere di escavazione per la
produzione di inerti, seguite da processi di “riqualifica ambientale” che,
tuttavia, nulla hanno a che vedere con il ripristino dell’ambiente golenale naturale
che caratterizzava, tanti anni fa, gran
parte del corso del grande fiume. Nonostante queste imprecisioni
tecnico-naturalistiche comunque, queste opere determinano la genesi di
interessanti neo-ecosistemi, capaci in breve tempo di popolarsi di specie
comuni e, molto spesso, di ospitare anche vere e proprie rarità faunistiche.
Nella
lanca “Ronchetto” di Motta Baluffi, le escavazioni continuano solo in un
settore, mentre la gran parte dell’acquitrino è ormai completamente
naturalizzata, mediante piantumazioni mirate, ma, soprattutto, grazie alla
crescita spontanea di essenze tipiche della golena, siano esse autoctone o
aliene alla Pianura Padana. Proprio nel settore ormai inattivo della lanca, vi
è collocato un attracco turistico per medie imbarcazioni e, nelle sue vicinanze,
uno scivolo d’accesso in calcestruzzo, volutamente mimetizzato da incolte siepi
di indaco bastardo (Amorpha fruticosa),
completamente spontanee nella loro invasiva ed oltre oceanica origine.
Immessa
la barca in acqua, ed infilate le gambe nell’oblò, attraverso un silenzioso
colpo di pagaia mi ritrovai a qualche decina di metri dalla riva, assistendo ad
un cambio improvviso di visuale sulla golena che, dal centro dell’acquitrino,
appare completamente diversa dalla consueta distesa ombreggiata dai pioppeti.
Attraversai
la lanca con delicati ma decisi colpi di remo, senza spruzzi ne tonfi per
rispettare una quiete naturale tipica di questi stagni isolati, al fine di
raggiungere la sponda opposta, inaccessibile per densità di vegetazione, quindi
un idoneo rifugio per la fauna selvatica.
Le
lanche sono vere e proprie nursery per
i pesci che abitano il fiume. Stagionalmente infatti, gli adulti fanno il loro
ingresso grazie alle acque crescenti stagionali ripopolando questi bacini di
avannotti che usciranno adulti o sub-adulti nelle stagioni successive.
Come
un ritmico e lento respiro il fiume inonda le sue golene, riservando per le lanche,
i bodri e le morte, un fresco carico di nuovi individui a rimpinguare ed
incentivare la biodiversità ed il patrimonio genetico di popolazioni troppo spesso
isolate. Capita a volte di osservare nei bodri ormai definitivamente separati
dal fiume, popolazioni ittiche che hanno evoluto nel tempo caratteristiche di
livrea diverse dalla varietà originaria; non nuove specie, ma varietà che
l’isolamento prolungato ha differenziato.
La
sponda inesplorabile della lanca “Ronchetto” è caratterizzata prevalentemente
da salice bianco e salicone oltre che da rovi, indaco ed una moltitudine di
piante erbacee come le poligonacee ad esempio, che nel complesso caratterizzano
una flora igrofila particolare, tra le cui sinuose radici trovano rifugio le
carpe che risalgono dal fiume per la frega o i persico trota appostati in
interminabili e pazienti nascondigli in attesa di una preda.
Sotto
un cielo azzurro intenso, col sole già calante verso ovest, la prua solcava
silenziosa scavando come un vomere l’effimero solco nell’acqua verde
trasparente, fino all’imbocco del mandracchio, sfiorando i salici per osservare
da vicino la schiena dorata delle carpe che con possenti colpi di pinna caudale
fuggivano rumorose allarmando la solita nitticora appostata a sentinella sul
salice più alto. Ci si accorge dell’uscita dalla lanca anche dall’aumento della
torbidità dell’acqua, dapprima smeraldina e trasparente poi sempre più densa e
opaca come un caffelatte caratteristico che nel fiume si manifesta
preannunciando ogni piena.
In
questa zona il Po subisce la costrizione di un canale artificiale, liberando
poi le proprie acque in un ampio meandro sul quale sfocia, verso valle, il
mandracchio di collegamento alla lanca. L’ingresso dell’acqua del fiume nella
lanca avviene per via indiretta, progetto finalizzato ad evitare che le
correnti fluviali cariche di sedimenti possano ostruire il bacino artificiale
in poche stagioni. Così nella lanca l’aumento delle acque è sempre graduale,
preannunciato da segnali come l’accentuarsi di risalita d’acqua risorgiva e
dell’aumento di torbidità superficiale. All’uscita del mandracchio, si
interpone al canale del fiume una barra fluviale, vasta e generalmente cosparsa
dei troppi rifiuti che produciamo e dei molti resti fossili: antichi frammenti
degli splendori che caratterizzavano il passato preistorico della nostra
regione. Cervo gigante, rinoceronte lanoso, mammut e bisonte sono solo alcune
delle specie che solcavano la nostra pianura quando solo il grande fiume la rendeva
una piana acquitrinosa o quando ambienti dapprima aridi poi glaciali poi
temperati si alternarono evolvendo gradualmente nell’ambiente che oggi
conosciamo.
Ma
quel giorno la paleontologia non era nell’obiettivo dell’escursione, quel
giorno il kayak aveva una meta ben precisa, una appuntamento finalizzato al
raggiungimento del posto giusto nel momento giusto: la golena durante la
sommersione.
La
golena, cioè quell’ambiente compreso tra il fiume e l’argine maestro è un
bacino inondabile, che funge da sfogo per l’onda di piena tutelando le arginature
a protezione degli abitati. Durante l’anno, questo enorme ecosistema,
parzialmente coltivato, non viene generalmente invaso dalle acque, ospitando
una fauna costituita sia da vertebrati, sia da invertebrati. Mentre nel caso di
una tranquilla piena stagionale il preavviso consente ad uccelli, rettili e
mammiferi di fuggire al di fuori dell’inondazione, per molluschi, insetti,
crostacei o qualsiasi altro genere di invertebrati, la fuga risulta certamente
più difficoltosa.
L’appuntamento
di quel giorno di primavera, con la piena in arrivo, era pertanto fissato con i
molluschi che abitano la regione più ravvicinata del corso d’acqua, gli stessi
che in quei precisi momenti, trovano rifugio dalle nascoste distese erbose, sui
tronchi e sui rami dei salici o di qualsiasi altra essenza sopraelevata utile
per scampare all’annegamento.
Uscito
dal mandracchio iniziai a percorrere il fiume verso monte, costeggiando la riva
effimera che di li a qualche ora sarebbe stata sommersa, mentre il passaggio
ravvicinato a contatto con l’erba alta causava rapide ed improvvise onde di
fuga, prodotte delle rosse pinne dorsali e caudali di grandi carpe dorate.
Mantenni
la rotta adiacente alla riva intimorito da un fiume che degli originari
duecento metri di larghezza conservava soltanto il raro riferimento di alberi
cresciuti troppo vicini a riva.
Percorsi
a fatica la distanza di circa cinquecento metri che mi separava da una quiete
già visibile in lontananza oltre l’irruenza ed il frastuono del canale
principale, dopo un filare spontaneo di salici.
Oltrepassato
l’ingresso mi ritrovai in un mondo apparentemente isolato, un ristretto canale
che solcava la golena che ingrossandosi penetrava indisciplinato un bosco di
salici cespugliosi con radici rosse e contorte esposte come ad attendere
l’insperata acqua. Erano alberi spossati dalla prolungata siccità, ospitati in
quel residuo canale che decine di anni prima era una lanca di retro pennello e
che la scellerata opera di bacinizzazione del fiume ha contribuito a rendere
più velocemente una morta, predestinata alla saturazione sedimentaria ed alla
progressiva estinzione. Ma in quella inaspettata primavera la natura sembrò
rigenerarsi, attraverso uno sbocciare di verdi gemme e di gialli amenti, in una
calma serenità apparente, capace di adombrare la dura battaglia per la
sopravvivenza che si stava svolgendo sul terreno. Centinaia di migliaia di
conchiglie varicolori aggrappate schiumosamente le une alle altre a formare
veri e propri grappoli in movimento dal basso verso l’alto nella spasmodica
ricerca di un punto sopraelevato o di una fortuita isola galleggiante sulla
quale potersi salvare.
Mi
inoltrai in questo ambiente surreale con la barca acuminata, destreggiandomi in
un percorso tanto complicato quanto divertente nell’osservare il comportamento
degli animali in fuga. Riconobbi subito tre specie di molluschi polmonati: le
grandi Helix pomatia, ricercate
prelibatezze del natale cremonese, la Fruticula
fruticum, e la vistosa Cepaea
nemoralis, caratterizzata da una così elevata diversità di pigmentazioni da
ingannare anche il naturalista esperto.
Proprio
questa specie rappresentava l’oggetto dell’interesse della mia escursione. Essa
è distribuita in un areale geografico comprendente l’intera Europa, e la si
riconosce, oltre che per alcune caratteristiche distintive, anche per le molte
livree differenti che la caratterizzano: morfotipi le cui abbondanze relative
riflettono le pressioni selettive locali.
Generalmente
sui testi specialistici si trovano indicate almeno diciannove varietà di livrea,
io mi riproposi di ricercarle tutte, o gran parte di esse, al fine di osservare
un esempio di selezione naturale nell’ambiente golenale padano, o perlomeno di
questa particolare area.
Generalmente
la Cepaea è abbondantemente diffusa
in tutta la campagna ma ricercarla in un ambiente privo di ingerenza umana
diretta come la golena, consente di eliminare l’influenza della componente
antropica che potrebbe falsare l’indagine. Così un po’ il caso, un poco
ragionamenti effettuati a priori l’anno prima, hanno permesso di individuare la
golena primaverile come l’area ed il momento adatti per una corretta
campionatura.
Dopo
aver attentamente osservato la silenziosa lotta per la sopravvivenza in atto,
decisi di accostare il kayak alla riva, delimitando dieci metri quadrati di
terreno all’interno del quale effettuare la campionatura.
Gli
esemplari stavano all’apice di sottili foglie lanceolate di ciperacee e
graminacee così fu abbastanza agevole effettuarne una raccolta. Collezionai
cento esemplari che collocati in un contenitore preparato per l’occasione al
fine di portarli in un luogo consono ad una loro osservazione.
Una
volta terminata la raccolta ed assicurato il contenitore al kayak mi
riavventurai tra le acque del fiume per poter raggiungere il mandracchio e lo
scivolo di risalita che nel frattempo si era visibilmente accorciato.
Giunto
a casa, collocai gli esemplari in terrario al fine di classificarne e
descriverne ogni morfotipo eseguendo un’analisi quanti-qualitativa del campione
considerato rappresentativo di una intera popolazione, utile per riconoscere
varietà e sub-varietà.
Quello
dell’individuazione del numero di morfotipi di Cepaea nemoralis è certamente un caso tassonomico nel quale il
rigore e l’equilibrio dell’operatore possono influenzare il risultato. Una
rigidità assoluta nell’attribuzione di una varietà in base alle caratteristiche,
porterebbe ad un numero certamente maggiore dei "diciannove" tipi
riconosciuti sui libri di testo, evidentemente il criterio di classificazione
adottato risulta caratterizzato da una certa tolleranza nella definizione dei
caratteri tassonomici identificativi.
In
ogni caso, l’analisi portò al riconoscimento di diciotto varietà descrivibili
con le livree: rosa con 1 riga bruna; rosa con 3 righe sul lato ombelicale; rosa
con 5 bande; rosa con 5 righe; rosa con 3 righe sbiadite; rosa con 1 riga
sbiadita; interamente rosa; bruna; rosa/giallo con 5 bande; giallo con 5 bande;
giallo con 4 righe e 1 banda; giallo con 5 righe; giallo con 3 bande e 2 righe;
giallo con 3 righe; giallo con 1 riga; giallo con 3 righe sottili sbiadite;
giallo e bianco con solo labbro scuro.
Di
tutti questi morfotipi, le varietà gialle erano le più abbondanti, con una
supremazia numerica delle varietà gialle con righe o bande, in particolare la
più abbondante era quella gialla a 5 righe seguita dal morfotipo giallo con tre
righe. Quale significato attribuire a questi risultati?
Per
interpretarlo c’è bisogno di conoscere la specie e soprattutto di sapere quali
sono i fattori di selezione che possono agire su di essa.
Certamente
una chiocciola polmonata come la Cepaea,
al di fuori da qualsiasi contesto vegetazionale, verrebbe immediatamente
predata perché caratterizzata da colorazioni sempre vivaci ed evidenti; inserita
nel suo habitat però, essa si integra con l’ambiente, risultando più o meno visibile
in funzione della livrea. Mentre il morfotipo rosa o bruno risulterà mimetico
in un sottobosco di latifoglie per la stessa colorazione delle foglie secche,
una varietà gialla troverà medesimo giovamento in ambienti caratterizzati da
vegetazione chiara o da residui vegetali del medesimo colore, come le foglie di
pioppo in autunno.
Ma
le varietà gialle a righe marroni? Cosa ci raccontano queste lumache in
pigiama?
Il
senso della loro sovrabbondanza in questa regione della golena del Po va a mio
giudizio a ricercarsi ancora nel tipo di vegetazione che le ospita, oltre che
al numero ed al tipo di predatori che le procacciano. Nella nostra regione,
probabilmente il più assiduo predatore di Cepaea
è il tordo (Turdus philomelos),
specie stanziale, capace di lanciarsi
nella vegetazione o sul terreno durante la caccia.
Il
terreno in questa area è fittamente ricoperto di ciperacee (Carex sp.) e di graminacee (Typhoides sp.), essenze erbacee
caratterizzate da steli e foglie molto sottili sotto le quali trovano rifugio i
molluschi. La forma degli steli, o meglio, la proiezione delle ombre delle
foglie e degli steli sul terreno ingiallito dal sole, rende gli esemplari
gialli a righe scure certamente più mimetici degli altri morfotipi, in special
modo delle varietà rosa.
Reminiscenze
di questi studi rimaste dai tempi della laurea, mi portarono nel periodo
immediatamente successivo a quella indagine naturalistica ad approfondire le
conoscenze sulla Cepaea nemoralis. Frequentando
l’Università di Parma per lavoro, ed in particolare il Dipartimento di Scienze
della Terra, fu per me abbastanza agevole convergere l’attenzione sugli studi condotti
da Pellegrino Strobel, naturalista già titolare della prima cattedra
universitaria di Storia Naturale presso la Facoltà di Scienze dell’Università
di Parma, e successivamente, nel 1863 anche professore di Mineralogia, Geologia
e Zoologia oltre che Direttore del Gabinetto di Storia Naturale. Strobel fu un profondo
conoscitore, quindi collezionista, di molluschi terrestri.
Poco
ricordato dai docenti, per nulla conosciuto dagli studenti, nel Dipartimento di
Scienze della Terra, si può scorgere lo spirito di Pellegrino rovistando sulle
mensole della polverosa biblioteca dipartimentale. Cercando qua e là tra i
libri che stancamente si adoperano per sostenere gli scaffali, può capitare di
rinvenire qualche testo antico che riporta sotto la copertina la firma in calce
di Strobel.
Ricordo
che all’inizio della mia ricerca bibliografica aprii casualmente uno dei
faldoni di Strobel, scorgendo tra i tanti documenti una cartella di fogli
ingialliti, contraddistinti da una grafia elegante. Erano le sei pagine di un
manoscritto firmato Del Magno, autore del quale non risulta alcuna informazione
d’identità.
Il
titolo del manoscritto era: “Sulla natura
ed origine delle specie di Molluschi Terrestri nell’Isola di Giamaica”,
novembre 1851, C. B. Adams. Non potevo credere ai miei occhi.
Un
manoscritto sull’origine delle specie, scritto otto anni prima del lavoro di
Darwin. In preda all’entusiasmo mi dedicai nei giorni successivi allo studio
del ritrovato, rinvenendo in esso molti concetti comuni con la teoria per
selezione naturale.
Attraverso
alcuni siti internet che permettono la libera consultazione della bibliografia
di Darwin, risultò che lo stesso venne a conoscenza dell’articolo di Adams.
Quest’informazione venne alla luce grazie ad un riferimento bibliografico nella
pubblicazione del corposo manoscritto di Darwin che precedette “L’origine della
specie” e che venne interrotto dall’arrivo della lettera di Wallace. Era il
1858, e questo evento determinò un’accelerazione del lavoro di Darwin portando
alla pubblicazione, l’anno successivo, della teoria per selezione naturale.
Stauffer,
che pubblicò il manoscritto, riporta che a pagina centotrentanove degli appunti
di Darwin, nel capitolo “Variation Under
Nature”, si rinviene un commento dell’autore a riguardo dell’articolo di
Adams; sorprende però, che l’obiettività del commento escluda molti contenuti dell’articolo
a discapito del solo riferimento sulla distribuzione delle varietà e delle
specie. Darwin liquida in fretta Adams, anche se il lavoro dell’americano va
ben oltre le speculazioni biogeografiche cui accenna il grande naturalista
inglese, sottolineando prudentemente il concetto di diversità intraspecifica e
di origine delle specie da varietà attraverso una transizione graduale.
Certamente
il lavoro di Charles Baker Adams non può essere paragonato per completezza
scientifica a quelli di Wallace e ancor più di Darwin, ma va dato merito a
questo giovane ricercatore americano di essersi addentrato in modo preciso e
competente nelle problematiche evoluzionistiche grazie alle osservazioni effettuate
su di un gruppo che prediligeva: i molluschi. Soltanto un grande acume
osservativo delle distribuzioni biogeografiche può garantire di cogliere
l’importanza delle varietà nell’origine delle specie. Sicuramente ambienti isolati
e di dimensioni ridotte come l’isola di Giamaica o anche le Galapagos
rappresentano un vantaggio per studi evoluzionistici, vantaggio che può essere
parzialmente colmato, nei luoghi meno consoni, osservando un gruppo zoologico con
scarsa velocità migratoria, all’interno di una nicchia ecologica abbastanza
isolata come una ridotta zona della golena del Po.
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