Correva
l’anno 1965. O forse era la fine del ‘64 quando la grande iena venne abbattuta con un unico, deciso,
colpo al cuore. Fu un tiro di precisione millimetrica da morte istantanea. Uno
di quegli spari eccezionali che valgono il lauto compenso a un cacciatore e che
sono indispensabili al tassidermista per ridare sembianze di vita a un animale
impagliato.
Nessuno
ricorda il nome di quel cacciatore. Ma quando egli si presentò in via Imperatore Johannes, presso la casa del tassidermista di Asmara, fu il consueto
abbigliamento da safari a marcarlo nelle memorie.
Ancora oggi
si ricorda quello stravagante imprenditore milanese in fuga dal caos della
metropoli lombarda, migrato per esercitare l’hobby di tutta una vita: la caccia
grossa in Eritrea. Un europeo senza scrupoli, dedito al denaro in maniera
sfacciata. Un machiavellico piccolo industriale lombardo, stanco di rampare con
fatica di fabbrica, che trovò nelle ceneri di un colonialismo insensato il
senso per un cambiamento radicale di vita.
Lo si ricordi
oggi alla fine di un’esistenza a caccia di trofei. Sepolto sotto un cumulo di
ciottoli, su di una collinetta desertica ai piedi dell’altopiano, a sovrastare
il letto di un fiume secco come gran parte della terra di conquista
mussoliniana. Sepolto con tutti gli onori di un caduto in battaglia, egli riposa
oggi tra selvaggi mastodonti a rimarcare, fino all’ultimo, la supremazia del
cacciatore sui predatori africani. Leoni, leopardi, licaoni e le maldestre e
insopportabili iene, infimi animali a sesso indecifrabile, capaci di
sganasciarsi con versi terrificanti evocando disgusto nel mentre di un
banchetto su di una carcassa.
Sarà per
questa fama malvagia e inquietante che le iene rappresentavano un prestigioso
trofeo da esibire nei sontuosi club italiani immersi in parchi verdi.
Lussuriose realtà contrastanti con l’arsura di Asmara, sfarzosi rifugi per vizi
di ricchi europei in visita ad amici e parenti figli del regime.
L’imbalsamatore
di Asmara, tal Luigi Caciagli, abitava in una ordinata e graziosa villetta di
legno vicino a un palazzetto sopra la lavanderia "Presto e Bene". Il
lavoro del tassidermista era a quel tempo una fiorente attività. Si imbalsamava
ogni specie di animale di cui era ricchissimo il bassopiano eritreo. Facoceri,
gazzelle, impala, antilopi, serpenti e uccelli erano le possibili prede di
cacciatori residenti, di americani della Kagnew Station e di qualche occasionale
turista.
Molte
case allora avevano questi trofei in bella mostra in salotto o in entrata. Oggi
l'idea può disturbare, tanto è stata coinvolgente ed educativa la campagna
anti-caccia che ha sensibilizzato a un rispetto maggiore per la natura che ha
rischiato di patire e ha patito l'estinzione di moltissime specie. Ma, un poco
duole dirlo, a quel tempo non si aveva ancora maturato questo tipo di sensibilità,
per cui la cosa suscitava più curiosità che
turbamento.
Il
lavoro dell’imbalsamatore era metodico e accurato. Egli conservava i tessuti degli animali morti
trattandoli con formalina, strutturando e imbottendo la pelle dell'animale per
mantenere il più possibile l'aspetto che aveva in vita. Entrando in quella casa
laboratorio si veniva assaliti dall'odore molto acre dato dalla pelle degli
animali, dalla vernice e dai conservanti che venivano usati.
Nel
cortile dietro casa erano posizionate delle enormi vasche, nelle quali venivano
bollite le ossa per essere ripulite e sterilizzarle. Nei magazzini dietro le
vasche erano ammonticchiati i trucioli con cui le pelli degli animali venivano
riempite.
In casa
incuriosivano le preziose collezioni ambrate di occhi di vetro. Allineati per
tonalità di colore, grandezza e qualità, questi oggetti raffinati erano posati
sugli scaffali del laboratorio, dove con la moglie, il Caciagli lavorava. Sua
moglie utilizzava in maniera disinvolta ma precisa lunghi aghi ricurvi con i
quali ricuciva le morbide pelli conciate che poi riempiva di trucioli,
impaccandoli con particolari arnesi di ferro.
Le fauci
spalancate, specialmente quelle dei predatori, mostravano i palati, le gengive
e le lingue fedelmente ricostruiti. Le zanne, ripulite e lucide, venivano
reinserite perfettamente. I nasi e le labbra, di stucco pitturato di nero,
completavano l'espressione finale, dando un risultato talmente reale da
giustificare il costo del trofeo, esprimendo l'arte maturata in anni di
esperienza e di studio anatomico dai due coniugi.
Una
grossa iena era piazzata, con ghigno terrificante, all’ingresso del laboratorio
in attesa di venire consegnata al cliente. Sarà stata proprio quest’aria
famelica e meschina, irriverente e bestiale a spingere molti ricchi ad ambire a
un trofeo di iena. E il mercato rispondeva di conseguenza, con parsimonia di
esemplari, raffinatezza di preparazione e costi da capogiro.
Le iene
furono la fortuna di Luigi Caciagli e proprio dall’esperienza delle sue mani e
dalla precisione della moglie venne realizzato il trofeo destinato al Montanari,
facoltoso collezionista romagnolo animato
dall’intento di stupire amici e conoscenti in un sontuoso e comodo safari
visitabile con martini in calice e toscani di qualità in un percorso tra mobili
intarsiati. Una rievocazione dei Kuriositaten kabinet tedeschi, gabinetti
naturalistici di mirabilia e curiosità.
Il
Caciagli preparò la testa della Iena maculata con precisione e meticolosità.
L’animale, giunto al laboratorio qualche mese prima, venne colpito al cuore con
una sola pallottola di medio calibro e si impresse nelle memorie grazie alle
ragguardevoli dimensioni. Era probabilmente una femmina adulta, possente e
maestosa, se di maestosità si può parlare nel definire questi opportunisti da
branco. “Solo la testa, mi raccomando” era la raccomandazione inoltrata da un
apparecchio telefonico in Italia, “Solo la testa, ma la più grande che si sia
mai vista in Africa orientale!”.
E così,
il compito di trovare quella testa, venne affidato al cacciatore italiano.
Istintivo,
metodico e paziente, il cacciatore di Milano si addentrò nel territorio di
alcuni branchi di iene alla ricerca della matriarca. Si, perché le iene
maculate vivono in branchi capitanate dalla femmina più forte, e il cacciatore
proprio una di queste cercava.
Incurante
della decapitazione di un intero clan di iene e dell’incolumità dei piccoli di
fronte a un periodo di anarchia inaspettato, l’uomo e la sua carabina di
precisione miravano solamente al denaro pattuito.
Si narra
che egli raccontò, al momento della consegna dell’animale, che dovette
trascorrere diverse notti alla ricerca di carcasse invitanti, fino a far venire
allo scoperto il gruppo di carnivori utilizzando un elefante abbattuto giorni
prima da un bracconiere come esca.
Sotto un
cielo terso sfiorato di lievi nuvole, il pachiderma riversava inginocchiato
sugli arti anteriori con i posteriori distesi in maniera innaturale. La fronte
sfigurata da un unico dirompente pallettone completava, con le abominevoli
mutilazioni delle zanne, un ghigno ciclopico da togliere il fiato. A poche ore
dall’abbattimento, la carcassa cominciò ad essere oggetto dell’attenzione di
avvoltoi e di conseguenza di leoni, e solo quando il tanfo di decomposizione fu
per molti insopportabile, venne l’ora dalle temibili iene maculate, con la
matriarca in testa al gruppo.
La testa
fiera ed eretta, attratta dal diffuso fetore di morte, conduceva il branco
ridacchiante e dispettoso di giovani buttarsi a capofitto a smembrare il
mastodonte.
Partendo
dalle interiora, progressivamente, le iene si sarebbero spartite le ossa, col
midollo ambita ricompensa dopo una fatica primordiale di mascelle capaci di
stritolare senza pari.
Appostato
immobile dietro una collina, incurante delle mosche che si accanivano sulla
fronte sudata cercando di prevaricare negli occhi, il cacciatore posava
l’occhio a pochi millimetri dalla lente del cannocchiale di precisione montato
su di una carabina di medio calibro. Solo la luna a rischiarare la scena.
Il dito
sul grilletto attendeva paziente da ore incurante della calura riflessa dalla
terra rossa di Eritrea, che la matriarca esponesse per intero il tronco da
dietro il pachiderma scomposto. Una ferita alla testa avrebbe significato la
perdita del ricco compenso.
La scena
era tutto un ribollire di eccitazione. Sovrastati da un nugolo di insetti, gli
animali sulla carcassa banchettavano insanguinati da sembrare diavoli rossi,
quando la madre, enorme, si scostò della zampa del pachiderma mostrando il
fianco al cecchino appostato.
Fu la
frazione di un attimo. Un sibilo acuto le trapassò il cuore e solo dopo l’interruzione
dell’ultimo vitale battito, nell’aria, si librò l’esplosione della polvere da
sparo che allarmò la fauna, ma non scoraggiò le iene nel loro ingordo intento
di riempire lo stomaco fino all’eccesso.
Sarà
stata la bramosa confusione in atto o forse la fortuna del cacciatore, ma il
corpo della grande iena, inzuppato di un sangue non suo, non venne sfiorato
fino al tramontar del sole, quando il branco ormai sazio abbandonò la scena in
favore di piccoli opportunisti facili da scacciare con l’aiuto di qualche
locale opportunamente ricompensato.
L’animale,
del peso di oltre 90 chilogrammi, venne caricato a fatica su di un fuoristrada
Fiat, opera dell’ingegneria meccanica italiana instaurata ad Asmara per volere
coloniale del governo del ventennio.
Scaricato
tra lo scalpore al laboratorio del tassidermista, il corpo della iena venne
indirizzato verso il laboratorio di dissezione, dove la pelle del capo, fino
alla base del collo, fu accuratamente ripulita e asportata.
Nei mesi
successivi la concia, la pelle venne riempita e fissata su di una base di legno
ellittica con piccoli chiodi posizionati a tenderla secondo un perimetro che
riproduceva perfettamente il diametro del collo al di sopra delle spalle.
Come di
consuetudine, prima di montare il piedistallo che avrebbe dovuto impreziosire
il trofeo, il Caciagli appose i timbri a inchiostro con la data e il proprio marchio
di laboratorio:
Febbraio 1965
Quando,
cinquantasei anni dopo quelle vicende, il timbro lasciato dal Caciagli dietro
la testa della iena riportò alla luce questa storia, il trofeo si trovava nel
Museo Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (CR), ricevuto in prestito
dal Parco Regionale della Vena del gesso romagnola.
A
seguito del restauro del reperto, il fondo in legno venne rimosso ridando luce
al sigillo lasciato in via Imperatore Yohannes.
Sembrerebbe
che a causa di sconosciute vicissitudini, assieme a parte della collezione
tassidermica del Montanari, il trofeo venne donato al Museo di Storia Naturale
di Faenza, dove la collezione fu parzialmente smembrata con la cessione di
alcuni pezzi.
La iena
di Asmara venne ritrovata, dopo una visita naturalistica al Parco Vena del
gesso, esposta all’aperto, più per motivi folcloristici che scientifici. La
testa giaceva all’esterno, appesa tra ragnatele e improbabili chimere costruite
con resti cranici di più specie, ad adornare una ricostruzione posticcia di
tenda indiana in lamiera, luogo per barbeque e picnic. Ve l’immaginate
l’esperienza eccitante di gustare carne appena cotta su di una griglia sotto
gli occhi minacciosi di una iena in agguato?
L’interesse
per l’allora sconosciuto trofeo, venne alimentato dalla scoperta avvenuta pochi
mesi prima, che un piccolo osso sacrale fossile ritrovato su di una spiaggia del
Po appartenesse proprio ad una iena.
Durante
un’escursione per la ricerca di fossili, in una nebbiosa giornata invernale,
venne ritrovato il piccolo osso sacrale che a colpo d’occhio poteva appartenere
ad un carnivoro. Ma a quale specie?
Ad ogni
inizio d’anno il fiume Po attraversa un periodo di circa due o tre mesi di
magra imponente ma nell’anno duemilaquindici la secca del fiume risultò ancora
più marcata.
In quel
periodo le spiagge, o meglio le barre fluviali, estese fino a perdita d’occhio
si confondevano col grigio e umido ambiente padano.
Tre
cercatori, decisa la spiaggia da battere quel giorno, percorsero l’interno del
meandro a valle di Cremona secondo uno schema collaudato fatto di percorsi
paralleli concentrati nelle aree più ghiaiose del deposito sedimentario.
Il
sedimento grossolano era abbondante ed esteso su di un’ampia superficie lunga
circa un chilometro e larga la metà. Ad ogni passo si rallentava il cammino,
tanto era il materiale da osservare per la ricerca.
Qualche
coccio di ceramica rinascimentale finemente impressa e colorata, distraeva i
tre cercatori dall’intento di scovare, tra la moltitudine di detriti, l’oggetto
dei loro studi: le ossa fossili.
Oggetti
scuri dalla forma anatomica regolare, le ossa fossili rappresentano i tasselli
di un antico mosaico dal ricordo esotico, africano, dove faune composte da grandi
erbivori proboscidati e ungulati venivano cacciate da carnivori spietati come
leoni, leopardi e iene.
Nonostante
l’ambiente propizio la sorte non riservò grandi soddisfazioni se non per un
sussulto iniziale che volle il ritrovamento di un fossile insolito del quale si
riconobbero immediatamente le potenzialità scientifiche.
Il reperto,
portato al Museo, venne sottoposto, nei mesi successivi, a una analisi
comparativa che consentì di appurarne l’incompletezza, il limitato trasporto da
parte del Po e la sua classificazione. Lo stato di conservazione del fossile,
comunque molto buono, permise l’individuazione di alcuni caratteri tassonomici
peculiari di una specie.
I resti
fossili di carnivori nei sedimenti del Po sono sempre scarsi a causa delle
ridotte dimensioni e del ridotto numero di esemplari in proporzione all’elevato
numero di prede. Queste caratteristiche, accentuate dalla rarità di
ritrovamento di ossa sacrali, resero problematico il reperimento di fossili di
confronto.
L’indagine
svolta procedette con un’attenzione paragonabile a quella impiegata nelle
preparazioni tassidermiche. Essa avvenne in principio ricercando su atlanti e
manuali anatomici, tra le raffigurazioni delle ossa dei carnivori, le ossa
sacrali che potevano assomigliare al fossile oggetto di studio. In questa
maniera, per esclusione, si restrinse il campo di indagine ai soli carnivori di
grandi dimensioni come i felini, gli ursidi, gli ienidi, i canidi e i
mustelidi.
La facile
reperibilità di ossa di cane e di lupo permise un rapido confronto che sancì
incompatibilità tra essi e l’oggetto dello studio, riducendo ulteriormente il
campo d’indagine. Alla stessa maniera, le dimensioni del reperto esclusero l’appartenenza
al gruppo dei mustelidi e del ghiottone in particolare, che di questi è
senz’altro il più grande.
Quest’ultima
esclusione indirizzò il confronto del fossile con resti di orso, felini e iene.
Data la difficile reperibilità di simili resti, si utilizzarono come confronto
alcuni manuali anatomici disponibili in rete nonché la collezione di scheletri
di mammiferi del Museo Bottego dell’Università di Parma. Questa indagine
combinata portò all’esclusione di una compatibilità con orsi, leoni e leopardi.
La ricerca rimase così circoscritta al solo gruppo delle iene.
Le iene
sono predatori presenti ancora oggi in Africa, ma in passato, come molti altri
mammiferi localmente estinti, popolavano l’Asia e l’Europa in grande quantità.
In particolare nel Quaternario il territorio attualmente sommerso dal Mare del
Nord era una sorta di Serengeti, cioè una vastissima pianura popolata
principalmente da erbivori, come mammut, bisonti, megaceri, alci e in minor
parte anche da carnivori. Questa inferiorità numerica di carnivori del nord
Europa durante il Pleistocene era però di gran lunga più elevata e abbondante
di tutto il rimanente territorio Europeo.
In
Italia resti di iena sono stati rinvenuti specialmente nei sedimenti di grotte
sparse sulle Alpi e sugli Appennini, di conseguenza un fossile di iena in
Pianura padana sarebbe stato una scoperta assolutamente nuova.
Le iene
attuali sono suddivise in tre differenti specie: la maculata, la striata e la
bruna e vissero anche durante il Pleistocene in Europa. A queste si aggiungeva
l’estinta iena delle caverne. Quest’ultima e la maculata erano le specie più
grandi.
Un
contatto col Museo di Storia Naturale di Ferrara permise di appurare
l’esistenza nel locale archivio di uno scheletro completo di iena striata che,
a seguito di un confronto, dimostrò che le dimissioni del sacro erano troppo
ridotte per poter essere correlate col fossile. Anche la iena bruna, di
dimensioni simili, venne di fatto esclusa.
Rimanevano quindi soltanto la iena maculata e la
iena delle caverne per spartirsi l’attribuzione del fossile ma la distinzione
di un solo osso postcraniale risulta in questo caso pressoché impossibile. Dato
però che la iena delle caverne è semplicemente una sottospecie più grande della
iena maculata e che le dimensioni del fossile suggerirono l’appartenenza
dell’osso sacro a un esemplare adulto non eccessivamente grande, si propense
per classificare il fossile come appartenente a una Iena maculata.
Venne
così comunicato il ritrovamento del primo fossile di Iena in Pianura padana. La
notizia destò scalpore mediatico, dapprima sui social e sui media locali, poi
sui quotidiani nazionali.
Per un
museo un ritrovamento così raro è sempre un successo importante. Si pensò pertanto
di celebrare il fossile con l’allestimento di una nuova sezione museale
dedicata, nella quale vennero esposti a corredo anche altri resti di carnivori sempre
rinvenuti nel grande Fiume.
Ma nell’esposizione
di un museo paleontologico è di assoluta importanza l’affiancamento, a reperti
di difficile comprensione, di ricostruzioni iconografiche o esemplari
conservati in sembianze di vita. Questo dualismo tra passato e presente risulta
al visitatore un utile strumento di comprensione e apprendimento.
E fu questo
il motivo per il quale la iena di Asmara venne chiesta in prestito al Parco
della Vena del gesso romagnola, per aiutare la Iena del Po a riprender vita.
Oggi la
iena del Po e la Iena di Asmara sono esposte assieme. L’una di fronte
all’altra, in un tempo non più loro e in una regione completamente diversa
dagli ecosistemi che le videro padroneggiare. L’una distante nel tempo e l’altra
distante nello spazio.
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